Il secolo lungo. Ancora l’arte tra ricerca e propaganda.

Paola Ferraris

 

Ultimamente si può verificare che non c’è stata nessuna svolta epocale oltre il ‘900, ma le contraddizioni che hanno attraversato quel secolo si acuiscono e i nodi vengono al pettine: crisi economica – non solo finanziaria – "peggio del ‘29", crisi della sopravvivenza sociale, e così anche per l’arte vanno in fallimento le promesse e ricatti degli anni ’90.

Almeno questa è la mia ipotesi, che propongo di confrontare con stralci di analisi che avevo pubblicato dove ho potuto*.

Sulle condizioni del lavoro nel campo dell’arte
(da Centoerbe, 6, 1996-1997)

Chi scrive, dopo aver provato ad entrare nei ruoli della critica d’arte, peraltro senza incontrare alcuna difficoltà ad essere reclutata per l’apprendistato informale, non ha ritenuto di poter accettare alcun contratto di inserimento professionale, accessibile sotto varie forme ma sostanzialmente alle stesse condizioni. Nel caso della professione di critico, è difficile far finta di non accorgersi che il ruolo richiesto coincide con un servizio pubblicitario (secondo i criteri e gli interessi di editore o promotore espositivo pubblico o privato che sia) e con un servizio di intermediazione tra domanda e offerta di quella confezione valorizzatrice che pare la sola a poter far riconoscere un’opera come arte (dove la domanda da parte degli artisti dipende dall’offerta da parte degli organizzatori, e l’intermediazione pure).

Molto più allettante sembrerebbe candidarsi al ruolo di artista, che resta riconosciuto come attività libera e autonoma: anche in questo caso, anzi in misura maggiore, si sconta però l’illusione che tale attività possa far guadagnare una autonomia economica senza l’abituale coazione al lavoro e dipendenza da qualcuno. Dalle statistiche elaborate nell’ambito della "teoria economica dell’arte"1 risulta infatti che:

  1. il reddito medio degli artisti non differisce in modo sostanziale dal reddito medio della forza-lavoro considerata nel suo complesso. Rispetto a quello di altri lavoratori qualificati, tuttavia, è chiaramente inferiore;
  2. i redditi degli artisti provengono abitualmente da più fonti. Il reddito proveniente dall’attività artistica principale è generalmente piuttosto modesto, e viene integrato ricorrendo ad attività secondarie ad essa più o meno collegate;
  3. la distribuzione dei redditi degli artisti presenta una maggiore diseguaglianza rispetto a quella dei redditi della forza-lavoro considerata nel suo complesso. Per numerosi artisti il reddito proveniente dall’attività artistica è inferiore a quello che per convenzione viene indicato come il reddito minimo accettabile. D’altra parte, una percentuale significativa di artisti guadagna redditi molto elevati.

Tuttavia, e tantopiù in una congiuntura in cui siamo tutti chiamati a "rinunciare al lavoro garantito" per tentare la fortuna entrando in lizza come "imprenditori di se stessi" (venditori di se stessi), il reclutamento sempre più allargato di aspiranti artisti sembra reggersi su una manipolazione dei desideri: sempre secondo detta teoria economica dell’arte, «È possibile che coloro che intraprendono una carriera artistica tendano sistematicamente a sovrastimare i propri guadagni futuri (...). Sebbene siano perfettamente consapevoli del fatto che il livello medio dei redditi degli artisti è piuttosto modesto, e che la loro variabilità è elevata... essi possono ritenere che ciò valga in generale, ma non necessariamente nel loro caso specifico. Ogni artista può naturalmente costituire un’eccezione... ma questo, per definizione, non può valere per tutti gli artisti. Di questa amara verità, tuttavia, ci si renderà pienamente conto solo dopo che si sia svolta un’attività artistica per numerosi anni, ma a quel punto la perdita... cui si andrebbe incontro se si decidesse di passare ad un’occupazione normale sarebbe troppo elevata per potere correre il rischio».

Questa illusione viene alimentata da incentivi, con l’offerta su larga scala di occasioni agli aspiranti artisti per ottenere i primi titoli utili alla futura carriera. Così si riproduce una riserva di creatori che assicura a bassissimo costo tutta la varietà e innovazione nella materia prima trasformabile in "arte", e nei tipi d’artista, a cui attingono i vari promotori.

Ma il denaro non è tutto, e si potrebbe accettare di vendere la propria forza-lavoro in un impiego compatibile (peccato che l’insegnamento e tutta la pubblica amministrazione stanno riducendo e precarizzando i loro posti di lavoro), in cambio del lusso di fare ricerca artistica nel tempo libero. Tale ricerca sarà però riconosciuta come "arte" solo tanto quanto sarà immessa nella produzione e riproduzione di pubblicità o propaganda (sempre più indistinguibili), che sia per reti espositive, per un’amministrazione o un’azienda, l’editoria multimediale o i servizi turistici, e Stato e Chiesa.

Sui rapporti dell’artista autonomo con queste organizzazioni, mi sembra valgano ancora i risultati dell’esperimento fatto da Brecht nel 19312, vendendo i diritti di adattamento cinematografico dell’Opera da tre soldi e perdendo il processo successivo, nonostante le rigorose clausole contrattuali dichiarate contraddittorie alle esigenze produttive: «L’opera può venire ad avere uno o più nuovi autori... senza che l’autore originario rimanga escluso per quel che riguarda il suo sfruttamento sul mercato. Il suo nome può essere usato per l’opera modificata, ossia senza l’opera. Anche la reputazione che gli viene dai suoi principi radicali può essere usata senza il frutto degli stessi, cioè senza quella determinata opera. L’opera cioè può venire adoperata... con un significato diverso, oppure addirittura senza nessun significato...».

"Come vive l’arte?" - (Scelte attuali) fra ricerca e propaganda
(da Invarianti, IX, 28, 1996)

La trasmutazione della ricerca artistica e della personalità autonoma dell’autore in valori puramente informativi, che significano solo la propaganda a favore del lavoro creativo in quanto è produttivo per altri, oggi fa sopravvivere l’arte.

Ma almeno dal primo ‘900 l’arte vive solo in quanto ricerca, che non lavora su committenza e non risponde a una domanda sociale confezionata, ma elabora nuove possibilità di esperienza da quel che non è prevedibile e utilizzato nella sopravvivenza organizzata. Rinunciare a questa ipotesi futurista (come era futurista Viktor Sklovskij3), segue quella censura preventiva oggi richiesta, per passare dalla ricerca alla "cerca": come ha scritto Sergio Lombardo4, «Quando cerchiamo qualcosa, mettiamo in atto un processo selettivo, il cui scopo è quello di conservare e riprodurre le condizioni vitali di un sistema preesistente, senza che nuove informazioni possano intervenire a mettere in dubbio la struttura e la funzione di questo sistema», «rimanendo perciò inevitabilmente all’interno del sistema committente». Questo modo di cercare ha già separato e organizzato la sopravvivenza della scienza in tecnica e dell’arte in artigianato, ma solo nel caso dell’arte, pare, senza lasciare tracce della trasformazione operata. Infatti il lavoro artistico sussiste come autonomo, conserva nella personalità il possesso del proprio mezzo di produzione di fatti artistici e, liberato dai vincoli dell’accademia per il riconoscimento professionale, è virtualmente accessibile a ogni individuo senza alcuna preselezione: anzi, sembra favorire gli svantaggiati, donne, immigrati, selvaggi, qualche volta malati mentali e primati.

La forma di illusione più recentemente propagandata è proprio l’offerta di riappropriarsi con l’arte di una personalità: agli artisti si chiede di valorizzare la normale miseria della sopravvivenza come produttiva di fatti originali, dando il modello per passare da consumatori a produttori di simili valori. Tutti devono poter fare la propria corsa nella vita. Nessuno può garantire che tutti vinceranno la corsa, ma tutti devono poter partecipare5: accettare la meta e la giuria.

A volte ritornano... Le "funzioni sociali dell’arte" e l’avanguardia
(da Invarianti, XII, 33, 1999; Titolo, X, 30, 1999)

«La presenza dell’avanguardia sta proprio nell’aver posto la necessità (non risolta) di superare la delega sociale alla rappresentazione ovvero alla produzione e alla riproduzione di valori artistici, per agire sulle condizioni che determinano questa delega e che escludono quei valori dall’esperienza reale»

Roberto Galeotti6

Una via per verificare questa presenza dell’avanguardia, e per specificarla rispetto alle condizioni dell’arte attuali e prossime passate, può essere quella di fare i conti con le pretese di falsificarla: con quelle teorie e pratiche sull’arte che sostengono oggi, anziché il fallimento, il successo ottenuto dall’avanguardia, e chiedono quindi l’archiviazione della sua ricerca, da un lato per contrapporvi una reazione, un recupero di "contenuti ideali", dall’altro per affermarne un superamento progressivo, verso i "servizi socio-culturali". L’obiettivo comune di reazionari e progressisti è di restituire all’arte una funzione "etica", un’utilità sociale riconosciuta, mediante un’autoconversione che viene indicata come via di salvezza per la stessa autonomia disciplinare, rispetto a una temuta riduzione del lavoro artistico a tecnica della comunicazione (come in architettura, dove l’autore e la sua idea stanno a velare un lavoro industriale su commissione). A questo scopo, risulta opportuno denunciare le colpe o i limiti di un’avanguardia che "è stata innanzitutto negativa" e che, con il suo rifiuto di rendersi socialmente utile, avrebbe condannato l’arte a un destino di cinica o chiusa "ricerca formale": eticamente neutrale, e perciò disponibile a ogni uso da parte delle istituzioni e del mercato che l’hanno infatti valorizzata, per la propaganda della "modernità" o come laboratorio di innovazioni per tutte le tecniche comunicative.

Nelle condizioni attuali, sono però le stesse istituzioni deputate alla "politica culturale" nostrana a considerare almeno alla pari le funzioni tecniche già note, e un ruolo eticamente responsabile dell’arte per un rinnovato "mandato sociale": riconoscendo, come il direttore dell’Accademia di Brera, che «bisogna, in ogni caso, istituire nuovi indirizzi di studio, che rispondano alle esigenze del "mercato" e ai nuovi bisogni culturali», cioè la Comunicazione visiva multimediale, ma anche le nuove specializzazioni etico-sociali in Arti-terapie e in Arte sacra, «dopo aver scoperto, da un’indagine, che l’80 % della committenza pubblica dipende dalla Chiesa cattolica»7. La funzione sacrale dell’arte, quale prodotto unico dello spirito umano autonomizzato e socialmente accreditato come segno di valore, risulta in effetti adeguata (anche a dispetto di Benjamin) a riscattarla come "bene rifugio" dall’obsolescenza programmata dei prodotti tecnologici, tanto che il ritorno alla pittura (come espressione autenticata dell’autore) coincide con ogni ripresa del mercato: «Se Art Basel è tra i fenomeni responsabili del rialzo dei prezzi, in compenso ha esercitato, negli anni Settanta e Ottanta, una notevole influenza sul lancio di alcuni movimenti. Il settore Nouvelles tendences, ad esempio, ha partecipato alla promozione della Nouvelle figuration e vent’anni dopo è a Basilea che si sono affermate le correnti del ritorno alla pittura»8. Sul versante delle molteplici terapie individuali e sociali, si posiziona invece la Biennale di Venezia, che assume il ruolo che le spetta al vertice delle numerose istituzioni "no-profit" impegnate nella riproduzione allargata di giovani artisti come operatori socio-culturali, per dimostrare il valore salvifico dell’arte nel recupero alla partecipazione dei soggetti deboli o marginali. In questo girone promozionale circola molto meno denaro e d’altra pare meno opere, mentre abbondano i messaggi impegnati sulle "opulente società industriali", sulla "corporalità", sul "nomadismo" culturale, e soprattutto le operazioni di "servizio sociale", a dare un «segno di quella vitalità» così ritrovata dall’arte.

Quella che appare come novità nell’orientamento etico degli artisti (all’espressione autentica, propria o degli altri), dipende dunque dall’applicazione di un modello "autoregolativo" a opzione multipla: che passa, secondo il classico metodo comportamentale di premiare le risposte corrette agli stimoli dati, attraverso le selezioni promozionali di istituzioni e mercato dell’arte, le reti di incontro della domanda e dell’offerta (anche autogestite da alcuni artisti), e una produzione ideologica sull’arte coordinata più o meno visibilmente con tutto il resto. È a quest’ultimo livello che, per il target più colto o con velleità radicali, si deve riparlare dell’avanguardia (altrimenti bell’e storicizzata per i consumi culturali), per mettere in chiaro la necessità di "superarla", all’indietro o in avanti, additandola a responsabile di quel disinvestimento dell’arte dalle sue responsabilità sociali che le avrebbe fatto perdere, coi suoi "doveri", i suoi "poteri".

Da una parte, è il critico-organizzatore Jean Clair che si pone a capofila del richiamo alla «responsabilità dell’artista»9 nel custodire i valori umani secondo l’autentica tradizione europea, assumendosi il compito di «fustigare gli eccessi» dell’avanguardia: «Da dove mai l’arte moderna poteva trarre questa impunità, che la metteva al riparo dai giudizi degli uomini e la esentava dal compito di essere utile e dall’obbligo, comune a ogni altra attività dello spirito, di rendere conto alla comunità?». Un peccato di orgoglio pure autolesionista, dato che «l’opera d’arte, oggi come un tempo, può recare testimonianza in modo abbagliante e definitivo, laddove altri mezzi forniscono solo povere e fugaci, o difficili, informazioni». Proprio quel che si legge nell’introduzione vaticana al Giubileo degli Artisti10: «Il bello estetico, nel difficile dialogo delle correnti contemporanee, deve ritrovare una sua identità, pur nella diversità delle sue concezioni, onde esprimere ancora la bellezza spirituale. Detta bellezza, se autentica, fa risplendere i valori morali, ridonando all’arte la sua liberalità e il suo ruolo umanizzante... Anche nel nostro tempo i segni della memoria e i nuovi segni del presente devono diventare strumento per la nuova evangelizzazione, affinché prosegua instancabile l’opera missionaria di inculturazione della fede nel mondo contemporaneo». Dopo aver precisato, a scanso di equivoci edonistici, che «persino quando scruta le profondità più oscure dell’anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione»; e puntualizzando come «per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la Chiesa ha dunque bisogno dell’arte. Essa deve infatti rendere percepibile e, anzi, per quanto possibile affascinante il mondo dello spirito, dell’invisibile, di Dio».

D’altro canto, la punta ideologica dell’ultima Biennale quanto a funzione sociale dell’arte si ritrova nel libro pubblicato dal commissario austriaco Peter Weibel, dal titolo tradotto come Prassi aperta, dove a proporre la versione progressista del superamento dell’avanguardia ha il posto d’onore Maurizio Lazzarato con la sua teoria post-operaista del superamento attuale della rivoluzione. I due superamenti sarebbero contemporaneamente a portata di mano, posto che «I problemi della disoccupazione, insicurezza lavorativa e povertà, possono oggi essere risolti solo quando l’economia dell’informazione sia strutturata in accordo con il principio economico di abbondanza, in altre parole, accordando libera produzione, libera circolazione e collettiva appropriazione di questa produzione»11. Agli artisti non resta che dare l’esempio, aprendo la loro produzione dalle opere all’azione nella sfera pubblica, come il curatore austriaco può già esibire: «L’arte è così coinvolta nel mostrare i contorni di un nuovo ordine sociale, con modelli complessi di partecipazione democratica, con demistificazione e superamento della guerra, con una socializzazione dell’ordine economico, con servizi di comunicazione, cambiamenti nella produzione materiale, lavoro immateriale, ecc». Dal punto di vista di questa apertura realizzata, la questione posta dall’avanguardia non ha più ragion d’essere e non è neppure esistita, assorbita nel monumento della "modernità occidentale" di cui ci si è appunto liberati: «l’opera d’arte della modernità è un autonomo oggetto estetico, un sistema chiuso. La dissoluzione dello statuto di oggetto dell’opera d’arte conduce alla fine l’era della modernità. Dopo la modernità, l’arte è diventata un sistema aperto. (...) La costruzione d’oggetto è stata rimpiazzata dalla costruzione sociale». Dove è diverso il monumento, anzi opposto a quello eretto da Jean Clair, tanto da trasmutare l’avanguardia in qualcosa che sarebbe stato un tutto e il suo contrario: mentre è identica la demolizione, sia per sgombrare il campo alla tradizione autentica sia all’abbondanza postmoderna.

Neo-integralismo e post-stalinismo, due fedi in competizione: salvo che la seconda segue gregariamente il destino nelle sue profezie di salvezza, lasciandosi ogni volta smentire dai fatti (lascio giudicare cosa resta oggi di quell’abbondanza), mentre la prima prospera e arruola proprio sulla base della sofferenza, e della disperazione in ogni altro servizio sociale.

Non per questo ci si deve aspettare un pensiero unico più che un potere mondiale unificato: cosicché l’arte può ancora "parlare tutte le lingue" e "assumere tutte le apparenze", pure quella di un’avanguardia proclamata, dopo averla negata.

«Ma l’atto di assumere un’apparenza implica necessariamente uno scarto rispetto all’originale. Particolarmente illuminante quest’affermazione di Freud...: "Nella distorsione di un testo c’è qualcosa di analogo a un omicidio. La difficoltà non consiste nella perpetrazione dell’atto, ma nell’eliminazione delle tracce. ... Questo è il motivo per cui, in numerosi casi di alterazione del testo, possiamo ritenere di dover trovare nascosto da qualche parte, benché modificato e strappato dal suo contesto... ciò che è stato negato. Ma non sempre è facile riconoscerlo." (...) Ne consegue che la precondizione fondamentale per il recupero spettacolare delle tecniche dell’avanguardia è la falsificazione, la deformazione e finanche l’occultamento delle sue premesse.»12 Quando però, dopo aver condizionato la ricerca a limitarsi alla "cerca" si dà il benservito ai cercatori, resta soltanto l’arte sacra, oppure le premesse dell’avanguardia.

Note

  1. B.S. Frey, W.W. Pommerehne, Muse e mercati. Indagine sull’economia dell’arte, Bologna 1991.
  2. B. Brecht, Scritti sulla letteratura e sull’arte, Torino 1975.
  3. Trasmutato in formalista, poi in pre-strutturalista, e fatto sparire quanto ai suoi interventi futuristi dall’editoria: esaurite Resurrection du mot, Editions Gerard Lebovici, Paris 1985 e La marche du cheval, Editions Champ Libre, Paris 1975, così come l’edizione italiana, La mossa del cavallo, De Donato editore, Bari 1967.
  4. S. Lombardo, Arte e ricerca, Roma 1975.
  5. Dal programma dell’Ulivo per le elezioni del 1996: attualmente governa chi si guarda da simili promesse oramai avventate.
  6. R. Galeotti, Il gioco e le tracce, «Invarianti», XI, 32, 1998: come precisa in nota, «Preferisco impiegare il termine avanguardia al singolare e privo degli aggettivi artistica o storica che solitamente l’accompagnano. Infatti, se si assume la definizione di ricerca citata [Sergio Lombardo, Arte e ricerca, Roma 1975], (...) ogni ulteriore aggiunta appare inutile o peggio scorretta lasciando intendere, a seconda delle esigenze, o la presenza simultanea di diverse avanguardie settoriali (...) o antagoniste (...), o distanti nel tempo, ma ordinate in una rigida successione temporale. (...) »
  7. Intervista in «Il Giornale dell’Arte», 178, giugno 1999.
  8. P. Regnier, L’oro del Reno, «Il Giornale dell’Arte», 178, giugno 1999.
  9. J. Clair, La responsabilità dell’artista (ed. orig. francese 1997), Torino 1997.
  10. Dal sito del Vaticano, http://www.vatican.va, Introduzione al Giubileo degli Artisti, 1999.
  11. M. Lazzarato, come più oltre P. Weibel, in Offene Handlungsfelder - Open Practices - Prassi Aperta, Padiglione Austriaco, 48. Biennale di Venezia, 1999 (traduzione dall’inglese di chi scrive).
  12. R. Galeotti, Il gioco e le tracce, cit., 1998: per come sia presente l’avanguardia, vale il suo riferimento a Walter Benjamin, Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico (1937), in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino 1966.

*Oltre alla versione di Le funzioni sociali dell’arte e l’avanguardia su «Titolo» (www.artstudio.it/titolo/art_3007.htm), e agli altri articoli su «Titolo» nn. 24 e 27, più mirati agli esempi dell’architettura e delle istituzioni culturali, è ora reperibile su Internet solo: Dall’arte di stato all’arte pubblica, «Juliet», 90, 1998-1999 (sul sito www.undo.net facendo la ricerca per nome o per titolo).

Sempre su «Juliet» (n. 98, 2000, Creare uomini di buona volontà) alla politica culturale di Stato e Chiesa davo queste premesse:

«Pensi di saper vendere? Comincia da te stesso. Se hai fiducia nelle tue capacità... e voglia di farti strada... per convincerci che sei tu la persona giusta per noi» (annuncio commerciale, 2000)

«Z. - Lei vuol dire che io penso a me stesso solo in quanto penso a come posso riuscire a vendere ciò che penso, e che ciò che penso non è per me, cioè per la collettività?
K. - Sì. (...)
Z.- Ho letto che in America, dove l’evoluzione è più progredita, i pensieri sono ormai equiparati a una qualunque merce. Uno dei giornali più influenti scrisse una volta: "Il compito principale del presidente consiste nel vendere la guerra al Congresso e al paese"...
K.- In simili circostanze è chiaro perché ti viene l’avversione per il pensare. Non è un piacere. (...) Il piacere di pensare è, come abbiamo detto, ampiamente rovinato. Lo sono anzi i piaceri in generale. Prima di tutto costano troppo. Devi pagare per dare un’occhiata al paesaggio: un bel panorama è una miniera d’oro...»
(Bertolt Brecht, Dialoghi di profughi, 1940-41)

«La rivalità fra i membri è ritualizzata in modo che ogni appagamento dipenda da una gara, realizzando così un modello di condizionamento che somiglia vagamente ai modelli della psicologia comportamentista. (...) Lo stesso Skinner ha più volte teorizzato la necessità di una struttura di potere statale capace di produrre un certo tipo di artista per mezzo di tecniche di condizionamento preordinate. Nel suo grossolano saggio Creare l’artista creativo egli così si esprime: "Il comportamento di chi scommette, chi punta, chi gioca una partita è rafforzato in base a una tabella cosiddetta a rapporto variabile e questa tabella (questo preordinamento) genera un alto livello di attività. In base a tale tabella tanto i piccioni quanto gli uomini divengono giocatori patologici. Orbene, possiamo creare artisti patologici e appassionati d’arte patologici con lo stesso sistema."»
(Sergio Lombardo, Messaggi semiotici e messaggi profetici, «Rivista di psicologia dell’arte», I, 1, 1979)

 

 




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